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"Il Funambolo" al teatro Vascello, recensione

Martedì, 18 Ottobre 2016 10:15

I primi di ottobre è stato in scena al Vascello di Roma "Il Funambolo", l'epopea dell'equilibrio perfetto.

"Il Funambolo": in scena dal 4 al 7 ottobre, l’omonimo poema in prosa dello scrittore francese Jean Genet è stato riadattato dal regista (drammaturgo) Daniele Salvo con la traduzione di Giorgio Pinotti. Tra gli interpreti Yuri Molinari e Giovanni Scura, Melania Giglio, Andrea Giordana (Genet) e Giuseppe Zeno (Bentaga). Diretto dalla coreografia di Ricky Bonavita. 

Il Funambolo: l'epopea dell'equilibrio perfetto

“…Che sia un morto, a danzare”, l’inizio si accende fin da subito con un focoso passo a due di Molinari e Scura; dopodiché compare sulla scena Abdallah Bentaga (acrobata il cui incontro e suicidio portarono l’autore alla stesura del testo, una profonda riflessione sul ruolo professionale ed esistenziale dell’artista) dormiente, con dei pantaloni lunghi scuri, una t-shirt a righe e delle bretelle nere. A svegliarlo sopraggiunge Genet (Giordana), con sciarpa, cappello, cappotto e tanto di bastone- come del resto si presentava l’autore nei suoi anni più tardi.

Con le prime battute si comprende rapidamente l’intenzione di Genet di portare il ragazzo, sempre stato un acrobata al suolo, a diventare un funambolo, apice dell’espressione artistica e del pericolo circense; lo esorta, lo allena, lo imbottisce di discorsi sul metodo da seguire per mantenere l’equilibrio, quali debbano essere i pensieri adeguati- ammesso che si possa pensare. 

Ma perché tutto questo affanno, quest’ ossessione per il funambolismo? Perché lo scrittore francese vede in esso la più illustre metafora dell’artista; cioè colui che, pur di regalare un attimo di bellezza, è disposto a mettere in gioco la propria stessa vita. Seguono dunque, lungo tutta la durata dello spettacolo, pensieri sulla vita e, naturalmente, sulla morte, arrivando a dire (Genet) che Bentaga deve “badare a morire prima di salire sul filo; che sia un morto, a  danzare”.

Ed è proprio il tema dello spettro, dell’immagine che osserva il proprio originale, come una sorta di Narciso inverso (esemplificato peraltro da costanti suoni acquatici), che fornisce timbro a coraggio alla rappresentazione; una sfida perenne contro i propri limiti, per morire della morte che dà senso alla vita, quella da cui ci si contempla, e da cui poi si torna indietro.

E non bastano i tentativi della morte (Giglio), un curioso Pierrot con uno scheletro sulla schiena, a dissuaderli con chiacchiere e canti dai loro intenti: l’ardore artistico, l’impeto erotico che accende il legame fra i due sembra resistere a tutti gli affondi.

Eppure. Eppure, perché Bentaga non ha il talento e la capacità di esaudire le ambizioni di Genet; così come Genet vede in lui un riflesso (ancora) di sé stesso, l’ illusione estrema di poterlo usare per arrivare a completarsi come uomo ed artista. Si assiste dunque ad un improvviso cambio di rotta, nelle ultimissime battute: il climax ascendente s’ interrompe bruscamente, e l’ immensa delusione di entrambi (per cui, nei fatti, Bentaga si suicidò ispirando Genet per la stesura del testo) non dà spazio a repliche. Estenuante la salita, rovinosa la caduta; nell’ esercizio come nella vita. Cala il sipario.

Come al suo solito, l’ingresso in sala comporta immediatamente quel senso di straniamento che si prova ogni volta che ci si trovi in una circostanza tale da renderci totalmente consapevoli che le nostre abitudini, così come sono, in quel posto non hanno più legittimità. C’è una sacralità, in teatro, che ammutolisce chiunque ne varchi la soglia.

Immaginate dunque cosa possa significare, se questo è l’effetto che produce un palco standard, entrare e trovarci un palco (ma dai?) e, su di esso, un’arena circense. E’ un po’ come mischiare la carne col pesce: sei un pazzo, il rischio di fare solo un intruglio (e di buttare i soldi) è elevatissimo, ma se ci riesci bene chiunque ne mangi avrà di che ricordarsi con piacere. E da dentro il Vascello, con uno studio sul testo così interessante, con un simile equilibrio di ritmo ed espressività tra danza, parole e canto, vi assicuro che si esce col palato ben soddisfatto.

di Diego Benedetti