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L’Attimo Fuggente torna in teatro grazie al cast della STM

Mercoledì, 17 Maggio 2023 20:33

La Scuola Teatro Musicale festeggia il primo decennio di attività misurandosi brillantemente con un capolavoro del cinema: Dead Poets Society - L’Attimo Fuggente diretto da Peter Weir nel 1989.

 

All’attore Luca Bastianello è stato conferito l’onore e l’onere di vestire i panni scapigliati e intensi dell’indimenticabile Professor Keating, una delle interpretazioni di Robin Williams più ispirate.
Lo spettacolo è andato in scena a Roma dal 9 al 14 Maggio presso il teatro Sala Umberto  –  che si conferma foriero di un teatro di qualità – nell’ambito di una tournée partita dal Teatro Superga di Nichelino (TO) il 21 gennaio, grazie al nuovo cast della scuola.

 


Accanto a Luca Bastianello ci sono stati infatti Nicolò Bertonelli, Marco Massari e sette attori diplomati alla STM: Daniele Bacci, Linda Caterina Fornari, Kevin Magrì, Matteo Pilia, Marco Possi, Alessandro Rizza e Adriano Voltini.
Lo spettacolo è stato diretto da Marco Iacomelli con la regia associata di Costanza Filaroni.
Evidenzio intanto un interessante parallelismo: una scuola di teatro ha mandato in scena la sua attuale classe di promettenti corsisti per raccontare la storia di una classe molto lontana nel tempo, quella che nella sceneggiatura originale di Schulman è da situarsi in un college nel Vermont a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
La forza della rappresentazione teatrale permette allo spettatore di entrare in una classe virtuale dove ci sono in realtà tutte le classi di tutte le scuole del mondo, in un vorticante spazio di senso che – pur nella disparità di condizioni sociali, età, epoche, culture e tradizioni lontane e diverse – parla un linguaggio evocativo e universale.
Ogni spettatore è stato giovane, forse introverso e atterrito come Todd Anderson (nel film interpretato da un acerbo ma ugualmente intenso Ethan Hawke), forse più sfrontato come Charlie Dalton (ho apprezzato molto che nella riduzione teatrale questo personaggio abbia mantenuto spessore e rilievo come nel film), o più simile al Neil Perry di Robert Sean Leonard: un sognatore. In ogni caso, ogni spettatore in platea credo si sia rispecchiato in uno dei grandi temi di quest’opera, molto ben decifrabile anche nella messa in scena teatrale: qual è il costo del viaggio interiore alla ricerca della propria voce?
Cosa sono disposto a sacrificare per essere? Fino a quale nota acuta può spingersi la mia voce più autentica? E seppure dovessi coglierla, mi piacerà?
Il preside del college in questo senso, rigida incarnazione di un Super-Io massacrante, ritengo sia la più vivida esteriorizzazione di quell’atavico nemico interno spietato ma necessario alla genesi di un conflitto tale da far deflagrare la trasformazione e far partire il viaggio. 

Riuscire o fallire è soggettivo e spesso dipende dai punti di vista: nella meravigliosa varietà di una classe, c’è chi decide di non ascoltare la sua autentica voce, per paura o anche solo per pigrizia (vedi il metodico Cameron che rifiuta l’insegnamento troppo innovativo e dispendioso di Keating) e chi invece ha il coraggio non solo di ascoltarla ma persino di lasciarvisi guidare, come Neil che decide di calcare il palcoscenico nonostante il padre lo visualizzi già con il bisturi in mano e il camice bianco indosso, portando il suo conflitto dilaniante tra il dover e il poter essere alla peggior conseguenza – il suicidio. Non un colpo di pistola qualunque, ma un clamore che scoppia dentro ognuno di noi e ci fa riassaporare la morte simbolica che abbiamo dovuto affrontare ogni qualvolta siamo stati costretti a tacitare la nostra parte creativa invece di poterla manifestare con il rispetto e la melodia che avrebbe meritato.
Personalmente, mi sono a lungo rispecchiata nel silenzioso Todd, sentendo scorrere in me quello stesso torrente che rumoreggia in lui e che cerca di esondare. Todd, l’eterno non visto, reietto e relegato sul fondale emotivo dei grandi, incapace lui stesso di cogliere i suoi reali bisogni e le sue preferenze, impossibilitato a esprimersi per paura.
Ma alla fine Todd il suo messaggio lo grida tra i denti sul palco: “La verità è come una coperta che ti lascia i piedi scoperti”, e lo fa con quella rabbia che attraversa il pubblico tenendolo in sospeso da generazioni, in uno dei momenti scenici più intensi dello spettacolo.
E infatti L’attimo Fuggente è una spinta alla rivelazione incessante di quella verità che ognuno porta dentro da sostituire con la verità che tutti ci raccontiamo per poter stare al mondo indenni. La verità nella sua crudezza che lascia sempre vulnerabile e scoperto qualche lembo di pelle: esposto al minimo alito di vento potrebbe bruciare sì, ma anche illuminare col suo bagliore i sentieri meno battuti su cui il professor Keating, citando Frost, invita i suoi allievi a spingersi e loro, infrangendo la quarta dimensione, invitano noi –  sì, proprio noi – a percorrerli.

La forza di questa sceneggiatura è proprio la verità.
Di ognuno di noi, ha ragione Keating, non resteranno che gli attimi, i respiri, i momenti vissuti. E ci potrebbe essere una terribile verità in fondo a ognuno di questi momenti se dovessimo scoprire di non averli vissuti pienamente.

Carpe diem non significa quindi praticare a tutti i costi l’edonismo, “acchiappare” quanto più possibile fino a saziarsi, ma è un pensiero molto più delicato e altruista di quanto non si pensi: significa vivere della propria verità non tradendo mai sé stessi e i propri talenti. E questa aderenza totale tra anima e corpo è anche l’unica via per poter amare gli altri.
L’insegnamento che il professor Keating regala ai suoi ragazzi dunque non li spinge certo a un atto rivoluzionario e sanguinoso come viene insinuato da chi non lo considera un docente adeguato, ma piuttosto li esorta a un atto di cor-aggio, cioè a un tentativo di strappare il cuore da dove è allocato e darlo in pasto alla vita se serve, pur di essere liberi.
Per questo il film – e lo spettacolo – si concludono con la famigerata scena in cui gli alunni salgono sulle sedie e sui banchi: nessuna protesta, solo un atto di fede, libertà e amore.
La prima volta che guardai questo film avrò avuto forse sei o sette anni.
Ricordo di aver pianto, senza saperne il motivo.
Non potevo all’epoca afferrare il significato del film, non conoscevo Whitman né Thoreau del resto, né i tanti riferimenti letterari, eppure ricordo di essermi letteralmente bloccata davanti all’immagine ancora catodica della mia tv, come ipnotizzata da John Keating.
Quel giorno è stato piantato un seme in me che ha affrontato i lunghi inverni giovanili e via via è germogliato fino a schiudersi e dipanarsi nei tralci della mia continua ricerca espressiva.
Anche se non sono mai stata seduta in quella classe nel Vermont, il mentore Keating ha promosso in me quella verità, la stessa che ho ritrovato sul palco del Teatro Sala Umberto e questo basta perché la mia critica sia positiva.
L’unica cosa a non poter essere corretta è l’assenza di verità.
Impianto scenico minimale, gioco basilare di luci, colori e suoni, un riadattamento del testo piuttosto didascalico per facilitarne la comprensione senza appiattirne tuttavia la ricchezza, diversi spunti interessanti, ma soprattutto, il dramma della verità ben servito.
Alla fine dello spettacolo ho avvertito un’onda in platea: eravamo tutti saltati in piedi sui nostri banchi interiori insieme agli attori.
Quindi il brillante gruppo della Scuola Teatro Musicale in quella fatidica classe ci ha condotti tutti e, perché potessimo avere sufficiente spazio per far applaudire il nostro cuore, ha abbattuto le pareti.
Attimo colto, O capitano! Mio Capitano!

 Di Beatrice Fiaschi

Foto di Donato Migliori