Hillary Clinton e Donald Trump sono i due principali candidati. Oltre a loro, una folta lista di candidati minori, su tutti Jill Stein del Partito Verde e Gary Johnson del Partito Libertariano, in aggiunta a parecchi altri indipendenti
Come funziona l’Election Day?
Cinquanta Stati federali, distribuiti su tutto il territorio americano, in aggiunta all’unico distretto (il ‘District of Columbia’, che contiene la capitale degli Stati Uniti, Washington D.C.), sono chiamati ad eleggere un totale di 538 grandi elettori, distribuiti in maniera proporzionale per ogni singolo Stato in base al numero degli abitanti. Il cittadino americano, sull’apposita scheda, esprimerà la sua preferenza per uno dei candidati presidente. Il voto dell'elettore, però, non andrà direttamente al candidato presidente ma a un grande elettore che, in base alla sua fede politica e all'obbligo di fedeltà nei confronti del cittadino, voterà a sua volta per uno dei candidati presidente durante una specifica riunione di questi delegati che avverrà dopo il voto popolare di novembre.
Prima di addentrarci nel dettaglio di chi sono e come votano i grandi elettori, apriamo una parentesi di tipo statistico. Si stima che, rispetto ai 130 milioni di americani che nel 2012 andarono a votare concedendo ad Obama la possibilità del secondo mandato, nel prossimo novembre saranno circa 100 milioni gli elettori che sceglieranno il suo successore. Sono ancora le stime degli analisti a fornirci dati sull’affluenza: nel 2012, rispetto ad una popolazione di 313 milioni di abitanti, andarono a votare tra il 50 e il 60% degli aventi diritto.
Quest’anno la percentuale dovrebbe ulteriormente abbassarsi a fronte di una popolazione cresciuta di qualche milione di abitanti.
Per tentare di aumentare l’affluenza, ad oggi già 30 milioni di americani hanno utilizzato il cosiddetto early voting, una procedura che permette ai cittadini di esprimere il loro voto con notevole anticipo. Va da sé ricordare che questi voti verranno comunque scrutinati al termine delle operazioni di voto del prossimo 8 novembre.
Chi sono e come votano i grandi elettori?
Partiamo dal presupposto che le elezioni si basano su un meccanismo chiamato winner takes all: il candidato presidente che vince in un determinato Stato prende tutti i grandi elettori dello stesso. I grandi elettori (che sono 538 come il numero dei membri della Camera dei Rappresentanti sommato a quelli del Senato), poi, costituiscono lo United States Electoral College, organo che eleggerà presidente e vicepresidente degli Usa sulla base del voto popolare avvenuto in ogni Stato.
I 538 grandi elettori sono ridistribuiti per ogni territorio tramite un calcolo a base demografica. Gli stati che assegnano il maggior numero di grandi elettori sono la California (55), che dall’elezione di Bill Clinton in poi è decisamente a tendenza democratica; il Texas (38), Stato repubblicano; gli stati della Florida e di New York (29 grandi elettori ciascuno). Se per lo Stato di New York non ci sono molti dubbi su una evidente tendenza democratica, la Florida è uno degli stati più incerti, secondo molti decisivo per l’elezione del 45° Presidente degli Stati Uniti d’America.
Per l’elezione occorrono la metà più uno dei grandi elettori, ovvero la fatidica quota 270 che garantisce l’elezione a presidente. Con questo sistema elettorale, il numero totale di voti espresso dai singoli cittadini è un numero irrilevante: occorre avere la maggioranza dei grandi elettori e può capitare che il neo-presidente abbia ottenuto meno voti da parte dei cittadini rispetto al suo avversario.
Accadde ad esempio nel 2000: il repubblicano Bush ottenne 271 grandi elettori che gli spalancarono le porte per il suo secondo mandato, Al Gore ne ottenne pochi di meno, ma con circa 500 mila singoli voti in più.
Giuridicamente parlando, l’elezione del presidente americano è considerata indiretta, poiché saranno i grandi elettori a votare per uno tra Clinton e Trump, in un’apposita riunione a Washington che di fatto ratificherà il voto popolare. Questo a meno che i grandi elettori non cambino idea – favoriti dal fatto che il loro voto è espresso a scrutinio segreto – ma è alquanto raro, essendo successo a soli dieci delegati in tutta la storia degli Stati Uniti.
Il primo confronto
Il primo dei tre dibattiti si è tenuto il 29 settembre 2016. La totalità degli analisti ha assegnato la vittoria del confronto ad Hillary Clinton, che è contestualmente cresciuta nei sondaggi a scapito di un Trump apparso poco brillante su varie tematiche.
Qui è possibile vedere il dibattito intero doppiato in italiano:
Il secondo confronto
Il 9 ottobre 2016 si è svolto il secondo confronto tra i due candiati alle presidenziali degli Usa.
Il terzo confronto
I tre dibattiti si sono conclusi con il confronto in Nevada, uno degli stati in bilico in questa tornata. Questa volta Clinton, vestita di bianco candido, ha subito qualche colpo basso del rivale, che sembra poter trarre i maggiori benefici da questo ultimo scontro. Nei due precedenti, infatti, Clinton ha saputo fare meglio, forte della sua esperienza e della maggiore preparazione. Soprattutto dopo il secondo dibattito in Missouri, preceduto dallo scandalo sulle dichiarazioni sessiste di Trump e dalla rivelazioni delle email dell'ex first lady. Finiti i tre dibattiti, i candidati continueranno la campagna solitaria per il resto degli Stati Uniti, le ultime cartucce da sparare per provare da un lato a fare una rimonta che avrebbe dell'incredibile per Trump, dall'altro a fare meno danni possibili per una vittoria sempre più nella tasca di Hillary.
Swing States vs Safe States
Nel grande fermento che l’Election Day suscita nei territori d’oltreoceano, il dibattito degli esperti, dei giornali e dei politici ruota anche attorno a parole chiave che assumono quasi il valore di veri e propri modi di dire. E così ogni analista non può non considerare la sostanziale differenza tra swing e safe States: i primi rappresentano quelli in bilico, che rimangono incerti fino a scrutinio eseguito; i secondi sono invece gli Stati sicuri, che ogni candidato ha già dalla sua poiché storicamente schierati per democratici o repubblicani.
È così che il risultato elettorale di un numero compreso tra 3 e 7 Stati, quelli che fanno parte del gruppo degli swing, sarà più influente del risultato di più dei quaranta altri Stati, tendenzialmente già ‘assegnati’.
Come tradizione Ohio (18 grandi elettori), Florida (29) e Nevada (6) sono gli stati incerti a cui si aggiungono Colorado (9) e Virginia (13) che, pur avendo alle spalle una lunga tradizione repubblicana, si giocano i propri grandi elettori fino all’ultimo voto. Stesso discorso per il North Carolina (15 grandi elettori) e Iowa (6) che presentano un grande equilibrio nei sondaggi e potrebbero essere confermati anche in questa tornata elettorale nella comunque ristretta lista degli swing States.
Menzione particolare per l’importanza del Nevada, che assegna solamente sei grandi elettori: statisticamente, dal 1992 in avanti (elezione di Bill Clinton), chi vince in questo stato diventa Presidente degli Stati Uniti (è successo sei volte nelle ultime sei elezioni, come in nessun altro Stato). Non è un caso che gli investimenti pubblicitari nello Stato che ha al suo interno la città di Las Vegas siano molto abbondanti per entrambi i partiti, così come non è un caso che entrambi i candidati vi faranno tappa nell’ultimo mese di campagna elettorale. Non è da sottovalutare il fatto che dei tre dibattiti totali tra i due candidati, l’ultimo si terrà il 19 Ottobre proprio a Las Vegas (il prossimo, e penultimo, si terrà il 9 Ottobre a Saint Louis, in Missouri).
Alla lista dei quasi sicuri swing States, in questa tornata elettorale potrebbero aggiungersi alcune sorprese dovute alla massima incertezza nei sondaggi elettorali di questo periodo: Georgia, Arizona, Missouri, con tendenze repubblicane in passato, da una parte; Pennsylvania e New Hampshire, con tendenze opposte, dall’altro.
Non è, infine, inconsueto che i candidati evitino di fare campagna elettorale sia negli Stati con una forte tradizione politica opposta alla propria che in quelli in cui la loro vittoria è già certa, dedicandosi maggiormente agli Stati in bilico, indipendentemente da quanti grandi elettori assegnino.
Come funzionano i risultati delle elezioni USA 2016?
Gli Stati Uniti d’America sono attraversati da numerosi e diversi fuso orari. Quelli che riguardano la maggior parte dei territori sono circa quattro, che dividono al loro interno il funzionamento stesso delle elezioni.
I primi risultati dovrebbero arrivare intorno all’una di notte italiana (ore 19 dei primi Stati americani), mentre gli ultimi addirittura alle sette del mattino italiane di mercoledì 9 novembre 2016 (l’una di notte nell’ultimo stato che, tradizionalmente, fornisce i propri risultati, ovvero l’Alaska).
Tra questi due opposti ci sono una serie di scadenze più o meno ferree, con l’importante picco delle due di notte italiane, quando, ai primi sette risultati distribuiti nelle ore precedenti, si aggiungono ben venti Stati, tra cui proprio la Florida e Texas.
Proprio la diversità dei fuso orari aiuta a capire l’importanza degli Stati in bilico, dal momento che per quell’ora già sapremo i risultati di numerosi swing States, tra i quali Virginia, Ohio, North Carolina e Florida.
Nei successivi due blocchi orari (rispettivamente alle tre e alle quattro del mattino ora italiana), va a concretizzarsi il quadro dei risultati di 45 Stati.
L’elezione del 45° Presidente degli Stati Uniti d’America sarà, a quel punto, quasi certa: occorrerà attendere le cinque del mattino quando arriveranno i risultati del penultimo blocco di Stati, quelli della costa Ovest: tra questi la California (che ricordiamo assegna il numero maggiore di grandi elettori) e altri Stati tendenzialmente democratici.
Ma l’attesa e ogni calcolo potrebbero anche non servire: se un candidato inizierà a prevalere decisamente sull’altro nella quasi totalità degli Stati in bilico, il nuovo presidente potrà essere annunciato ben prima delle cinque del mattino.
di Leonardo Vacca