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La Grande Bellezza : commento di uno spettatore

Mercoledì, 05 Marzo 2014 22:24

“La più grande ambizione di Flaubert era scrivere un romanzo sul niente” ripete Jep Gambardella ne ‘La Grande Bellezza’, ma come si potrebbe definire un romanzo simile? Le etichette fanno bene al cervello. Fanno molto comodo a tutti, sia al supermercato che in libreria. Le etichette ci preparano a quello che ci aspetta. Intanto si sceglie grosso modo dove andare, scelte di ampio margine, del tipo: narrativa o saggistica, poi si entra nel merito di temi e autori. Per le cose note alla fine non facciamo nemmeno caso alle etichette, tanto siamo abituati, ma per quelle appena uscite, fresche di invenzione, qual è la bussola, il criterio per capirle e poi etichettarle?

Prendiamo l’ultimo trionfo agli oscar di Sorrentino, che sembra tendere a quel romanzo flaubertiano sul niente. È una vittoria meritata o solo fumo negli occhi? La critica, così come l’opinione della gente è divisa. Chi scrive queste righe non è assolutamente un critico cinematografico (a parte quello che ha imparato da René Ferretti non sa nulla di regia). Parlo da spettatore. Perciò, innanzi tutto, parlare di un film significa vederlo e tenere conto di ciò che si è visto, sentito e provato. Non confrontare la carriera del regista con l’ultima creatura, né iniziare la sfilza di paragoni con registi e film simili, somiglianti, ispiratori, ecc. . La prima cosa che conta è l’impressione che si prova uscendo dal cinema.

Se consideriamo che bello sia un film fatto bene tecnicamente, con bravi attori, con dialoghi interessanti, immagini di grande impatto e musiche che enfatizzano le scene, allora da spettatore penso che La Grande Bellezza sia un film riuscito. Per quanto riguarda ciò che si prova uscendo dal cinema, personalmente lo sintetizzo in una parola: angoscia. Non disgusto o paura, sentimenti che si riferiscono a qualcosa di preciso, bensì uno stato d’animo che non si riferisce a nulla se non alla pura possibilità dell’esistenza, malessere consapevole che le possibilità umane non hanno nessuna garanzia di realizzazione. Nemmeno i personaggi del film, pallide caricature di personaggi peggiori nella realtà, hanno alcuna garanzia di realizzare qualcosa, perciò galleggiano nell’indolenza di una città che resta testardamente uguale a sé stessa da secoli. In più con l’aggravante che loro (il “jet set”) sono loro e noi (gente comune al di fuori di quel circuito) non siamo un… bel nulla.

Tutti, dopo l’uscita del film hanno speso parole pensando alla Dolce Vita di Fellini, a me ronza in testa l’amarezza di Monicelli, che ha vestito la sua critica con i costumi della Roma di primo Ottocento con il suo Marchese del Grillo. Senza scherzi e vena comica il sottofondo è la medesima città, bella ed eterna, che sotto cova la noia di chi senza speranza passa il tempo divertendosi di notte su trenini che “non vanno da nessuna parte”. Una città che dopo la politica e la religione, da ultima culla un’altra grande bugia: il cinema.

Gli smaliziati della decadenza lo troveranno caricaturale o ripetitivo, un film sul già visto e sentito, ma sotto il gran bla bla bla che accompagna certe opere, di solito c’è un nocciolo duro di merito artistico, fosse anche solo per mettere il dito nella piaga di un paese che o non si accetta per ciò che è o addirittura neanche vede i suoi lati negativi. Il merito di questo film è dipingere non solo la crisi che ci circonda, ma soprattutto quella dentro ognuno di noi, riuscendoci grazie a un valido regista e bravi attori.