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Musica

In the grove #13: la rinascita secondo i Pure

Mercoledì, 22 Luglio 2015 03:07

I Pure nascono da un ampliamento del progetto solista di Emiliano Dattilo, che combina le diverse esperienze plasmando un sound del tutto nuovo, alternative, rock ed elettro allo stesso tempo.

Ed è proprio di crescita che parla il loro album Love after the end of the world, collettiva, individuale. Perché la mancanza di cambiamento li spaventa, in ogni contesto.

Da Through my eyes a Love after the end of the world cos’è cambiato? Cosa ha spinto Emiliano ad allargarsi?

Innanzitutto sono cambiato io, se c’è una cosa che mi spaventa è la mancanza di cambiamento. Mi sono allargato perché ho mangiato molto (ride, nda), la spinta è stata la necessità di portare live un esperienza più completa, di dare modo al pubblico di ascoltare le canzoni così come sono state registrate in studio.

Pensi di aver aggiunto valore al tuo progetto solista?

Dal punto di vista compositivo non è cambiato nulla, continuo a scrivere personalmente brani e arrangiamenti, se non pensare delle parti per strumenti nuovi. Durante i live è cambiato tutto: condividere il palco con altri musicisti cambia l’esperienza emotiva che si percepisce durante un esibizione, migliorandola.

Il vostro ultimo album parla della fine del mondo, perché?

E’ stato concepito nel periodo in cui si parlava della famosa profezia Maya (2012, nda), un tema quindi attuale. E’ anche frutto di un mio risveglio e crescita spirituale, l’ho percepito durante una notte e poi sviluppato con la band al completo successivamente. La fine del mondo è anche metaforica per la sfera personale, le crisi individuali prevedono il passaggio dall’oblio per giungere alla rinascita.    

Love after…. Quindi l’amore vince anche sull’apocalisse?

Si, penso e ritengo che l’amore sia l’unico sentimento in grado di salvare l’umanità: il mondo ha bisogno di amore. Amore per la vita, per il prossimo, per le differenze, Amore. Amore per la salvezza. L’amore è salvezza.

Volete svelarci qualcosa sul vostro album in uscita?

Sarà un album di cambiamento  stilistico, compositivo, e di formazione ci sarà una componente elettronica maggiore a scapito del rock, abbiamo aggiunto un violino e una seconda chitarra. Sarà ancora in lingua inglese, per rimanere fedeli al nostro progetto, ma è molto diverso da ciò che abbiamo fatto finora.

Hai un’idea molto positiva del cambiamento: non rinneghi nulla dei tuoi lavori precedenti?

 No, sono tutti frutto di un momento ben preciso. Ogni album rappresenta una fase del processo evolutivo, anche se oggi sento mi appartengano meno.

Com’è stato esibirvi in un bosco?

La location è molto suggestiva, la cornice è ineguagliabile, ma forse quello che fa davvero la differenza è avere un pubblico attento, ci stimola ad istaurare un rapporto con loro, a suonare meglio.

Avete riarrangiato i vostri brani fino a stravolgerli, cosa avete perso/guadagnato?

L’acustico crea un’atmosfera più intima, accorciando le distanze con il pubblico grazie ai suoni più eterei e delicati. Rispetto al live elettrico abbiamo perso di energia e l’impatto con gli ascoltatori.

Parliamo di festival: in Italia esistono solo quelli indipendenti. Secondo voi perché?

Perché in Italia non c’è cultura ed educazione, inoltre il circolo musicale è totalmente chiuso. L’Italia, l’italiano medio ha altri interessi, noi ne prendiamo atto. All’estero è molto diverso, ed è un peccato, potremmo vivere d’arte.

Secondo voi questo deficit culturale è esteso anche ad altre forme artistiche?

Assolutamente si, anzi forse il campo musicale è quello che ha ancora un minimo di risonanza, per la scrittura, le arti, la recitazione c’è molto meno spazio, basti pensare a quanti teatri stanno chiudendo.

Pensate ci sia sufficiente sensibilità in Italia per la vostra musica?

Siamo l’unico paese che ha una tale quantità di tribute band, e paradossalmente sono più conosciute di tanti emergenti. Il pubblico nostrano non è pronto al nuovo, non è interessato, preferisce ascoltare la musica dei grandi suonata dai piccoli, ma non è fare musica è, al massimo, interpretarla.

Mai pensato al Nord Europa?

Si, stiamo prendendo contatti con la Scandinavia tutta, per suonare lì. Ci piacerebbe molto insidiarci nel panorama artistico di Reykjavik, una città dove sembra si possa lavorare e vivere di musica. La scelta è stata anche indotta dai dati di iTunes, la maggior parte degli ascolti e dei download provenivano proprio da queste regioni.

Come mai l’inglese? Sperate di arrivare oltre i confini nostrani?

Un musicista deve innanzitutto essere onesto con se stesso, canto in questa lingua perché che mi viene naturale: sicuramente ha inciso il mio background, quasi totalmente anglosassone. L’inglese è la lingua di scambio con le altre culture, anche se da noi è molto poco conosciuto, ti permette di non essere schiavo della tua provenienza.

Quanto influiscono i social sulla crescita di notorietà?

Sono molto importanti se ben veicolati, per farlo è necessario affidarsi a dei professionisti. La promozione è un lavoro da non sottovalutare, soprattutto nel nostro campo. Poi c’è il virale: a volte si parla molto di una band e di conseguenza la si segue, come fenomeno di massa.

 

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