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Musica

Shye Ben Tzur, Jonny Greenwood and The Rajasthan Express – Junun

Giovedì, 10 Novembre 2016 18:52

Dpo l’esibizione al Club to Club Festival di Torino, recuperiamo il disco uscito l’anno scorso a opera del collettivo multinazionale riunito da Shye Ben Tzur.

 

In un viaggio in Rajasthan, India, che ancora ricordo con affetto, l’arrivo nel forte di Mehrangarh fu salutato con l’esclamazione: “Ma qui mi sembra di esserci già stato…”. In un vertiginoso cortocircuito culturale, mi sovvenne poi che la mia prima “visita” al forte era stata un anno prima durante la visione de ‘Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno’, nelle scene del film girate all’interno e nei dintorni del forte del dio sole.

Il fascino dell’esotico è da sempre un topos letterario irresistibile per la cultura occidentale: basti pensare agli innumerevoli esempi di scrittori (Salgari, Stevenson, Pratt) affascinati dall’aura di mistero e di incanto che circonda questi luoghi, che siano il Bengala, l’Indocina, la Malesia o i Mari del Sud. D’altro canto, quando affrontate dalla prospettiva occidentale, talune operazioni si muovono spesso lungo la sottile linea che separa il genuino interesse e fascino per forme culturali altre di indubbia bellezza e una qualche forma di autocompiacimento accondiscendente in odor di post-colonialismo.

È in questi problematici meandri che mi muovo scrivendo di questo gioiello di album, registrato giustappunto all’interno del forte di Mehrangarh. Non temete: qui l’autenticità dell’operazione (se proprio la questione ci toglie il sonno) è garantita dagli ottimi risultati raggiunti. Uno sforzo frutto di una collaborazione tra personalità tanto distinte quanto vicine nelle proprie inquietudini e curiosità. Deus ex machina del lavoro è Shye Ben Tzur, compositore, musicista e poeta israeliano ma spesso di stanza in India, da anni studioso e appassionato di musica e cultura indiana e della tradizione musicale sufista Qawwali.
Dall’estremo occidente europeo arrivano invece due personaggi a noi ampiamente noti: Jonny Greenwood e Nigel Godrich.
Ma il vero protagonista qui è il collettivo musicale The Rajasthan Express, forte dei suoi diciassette esponenti, divisi tra strumenti a fiato, a percussione e a corda. In questo senso, l’operazione è rispettosa del portato musicale di questa formazione, giacché a farla da padrone sono i bordoni del kamaicha, la vibrante vivacità dei cori Qawwali e l’esuberanza delle linee di tromba, trombone e tuba, in curiosa ma forse non casuale assonanza con certi episodi della musica tradizionale balcanica. D’altronde, le radici indoeuropee sono comuni.

 

Con liriche in ebraico, hindi e urdu, ‘Junun’ è al contempo un compatto e variegato esempio di una riuscita intermediazione culturale, una sorta di Via della Seta dei ritmi e degli accordi. Fin dalla prima, omonima traccia è evidente una ricerca ritmica accurata, con parti che iniziano frenetiche per poi stemperare in un andamento più sincopato, in quello che possiamo definire, con una certa semplificazione, il ritornello. A imporsi qui è la batteria di percussioni e il basso circolare di Greenwood, qui sulla scia di gente avvezza a questo genere di operazioni, come Bill Laswell. E poi le vocalità, certo: la voce del musicista israeliano fusa in un tutt’uno con quelle dei salmodianti rajasthani e con le linee della sezione fiati. Un brano che riassume un lavoro ma che, seppur esauriente, non è che la porta d’ingresso alla fortezza. In ‘Roked’ si sente la presenza sempre discreta e non intrusiva di Greenwood: la sequenza campionata delle percussioni al principio è farina del suo sacco. Lungi dall’essere un geek dell’elettronica (o, piuttosto, oltre a quello), il chitarrista dei Radiohead non ha mai fatto mistero della sua fascinazione per la musica classica, tradizionale e per gli strumenti acustici. Potrebbe parlarvi di onde martenot così come di un tanpura (in questo senso, molto preziosa è la testimonianza rilasciata per Computer Music Journal qui, per chi abbia voglia di approfondire). ‘Hu’ è un brano superbo, un apice di questo disco: si apre con un sinuoso assolo di kamaicha di Dara Khan per poi immergersi in un meditabondo drone foraggiato dalla chitarra, dai cori e sostenuto dal canto morbido di Ben Tzur e dai cori dei Rajasthan Express. Una curiosa somiglianza con altri campioni della musica etnica arrivata a orecchie occidentali, come i Tinariwen. Un’alternanza di vocalizzi struggenti e drammatici introduce ‘Chala Vahi Des’ , un brano in minore che non rinuncia però a un certo dinamismo. A spiccare su ‘Kalandar’ sono di nuovo l’elettronica di Greenwood e il flauto di Ben Tzur, mentre ‘Eloah’ è un gospel dove svetta la magia dell’incrocio di voci e il misticismo della ripetizione.

La seconda parte del disco si mantiene su alti livelli, con una menzione speciale riservata all’accorato lirismo di ‘Ahuvi’ e alla cinematica ‘Allah Elohim’.

Shye Ben Tzur
La copertina dell'album

La prova che l’interesse alla commistione sia sempre più sentito e diffuso l’ha data il Club to Club Festival di quest’anno a Torino: tradizionalmente dedicato alla musica elettronica e alle sue varie diramazioni, l’organizzazione non si è però lasciata sfuggire l’opportunità di avere la formazione che suona in questo disco ospite per una delle date, rendendo la line-up ancora più strepitosa. E il potenziale interdisciplinare dell’album è confermato dal film-documentario sulla sua realizzazione a opera di Paul Thomas Anderson, che ha ricevuto buone critiche durante l’anteprima al New York Film Festival.
Infine, è interessante constatare come la ricerca di ispirazione, musicale e non, rivolgendosi a Oriente non sia scemata con gli anni e, anzi, come questo album possa essere visto nella scia degli illustri precedenti di questa tradizione: basti pensare ai viaggi in India dei Beatles, all’apprendistato di George Harrison e di altri musicisti occidentali con Ravi Shankar e Pandit Pran Nath, alle sperimentazioni di Peter Gabriel e Jon Hassell. Benché non scevre da un certo sensazionalismo e dal compiacimento citato al principio, queste esperienze sono servite ad acclimatare le nostre orecchie a sonorità diverse che meritano la loro attenzione.

In un mondo in cui chi muove le redini del gioco si arrocca su posizioni sempre più reazionarie e antistoriche, erigendo barriere, sottolineando differenze, difendendo valori falsamente identitari, iniziative come questa e altre dimostrano come, più in basso, ci si muova per fortuna seguendo ben altre direzioni.

Eugenio Zazzara