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Musica

Indie is not dead

Sabato, 16 Settembre 2017 10:02

Abbiamo partecipato al panel Social Music – indie and mainstream: is there any difference anymore?” in occasione della Social Media Week (#smw ), che si sta svolgendo a Roma in questi giorni. Resoconto, opinioni e impressioni di quello che è un tema sempre più caldo nel panorama musicale.

«Indipendente da chi? Da cosa? L'ideale sarebbe riuscire a pensare in modo indipendente, ma fare numeri mainstream. Questo è il sogno di ogni musicista».

In questo pensiero così franco e vitale espresso dal chitarrista degli Ex-Otago Francesco Bacci durante il panel “Social Music – indie and mainstream: is there any difference anymore?” in programma alla Social Media Week è custodita l’essenza sincera di quello che ormai nell’industria musicale costituisce un leitmotiv di discussione.
Ma torniamo a venti giorni fa. Il 25 agosto i The War On Drugs di Adam Granduciel, quintessenza dell’indie rock, dopo tre album per la Secretly Canadian sbarcano alla major Atlantic con un album "A deeper understanding”, che non farà fatica ad imporsi come uno dei migliori dischi rock dell’anno. Una raccolta di canzoni sincere e coinvolgenti, celebrate da un rock anche demodè se vogliamo, ma che conduce ogni affezionato ascoltatore in un universo incline ad un’intimità così difficile da palesare linguisticamente e di cui l’indie si è da sempre fatto portavoce.

La storia dei The War On Drugs è una storia a cui dovremo affezionarci perchè la sentiremo raccontare spesso, anche se animata da altri personaggi ed è la storia di quando l’indie si fa mainstream, per rimanere comunque indie, dando così vita a un ind(i)efinito, che è diverso dal dire indi(é)finito.
Ogni volta che si verifica un cambiamento bisognerebbe smetterla di dichiarare morto il cinema, morta la musica, morto quello e morto quest' altro. Se anche nella scienza nulla muore e tutto si trasforma, nella musica, reame dell’anima, è necessario ancor più avere il coraggio di separarsi da determinate categorie per ridefinirle, ma senza annullarle e dichiararle morte.
Potremmo forse dire che il panorama musicale, servendoci delle immagini noiosissime della dialettica hegeliana, stia attraversando il suo periodo di sintesi in cui questo indie/ind(i)efinito, che sta assumendo una sua dignità concettuale, deve ancora trovarne una lessicale? L’interrogativo proposto è complesso, ma un panel come quello tenutosi alla Casa del Cinema di Roma in occasione della Social Media Week tra alcuni degli esponenti della filiera musicale - Daniele Menci di Sony, Dario Giovannini di Carosello Records, Enzo Mazza della Fimi e Francesco Bacci della band Ex Otago - ha costituito l’opportunità per uno scontro dialettico stimolante.
Tutti i partecipanti al tavolo di discussione sono d’accordo su un punto: la musica, grazie alla digitalizzazione si è fatta democratica. Enzo Mazza di Fimi afferma «Le differenze di genere sfumano, oggi. Attraverso le playlist degli utenti vediamo brani di generi diversi associati in modo indipendente, al contrario di quello che faceva un purista o un collezionista che si focalizzava su un genere. Sono modelli che stanno mutando radicalmente».
In questi anni, infatti, l’aumento del consumo musicale, la maggiore popolarità della musica, il più semplice accesso ai contenuti, hanno condotto il consumatore al centro delle riflessioni degli addetti ai lavori. Si può quasi dire che il consumatore abbia finalmente sviluppato una propria identità, che da un lato trova forza nel rifiuto delle dinamiche di genere, eliminando ogni tipo di categoria in passato imposta dai media tradizionali, e dall’altro attribuisce essa stesso forza all’artista, facilitando una scelta intraprendente di chi e cosa ascoltare.
«La musica è più democratica perché chiunque può accedere ai contenuti e scegliere cosa ascoltare. Senza alcuna imposizione passiva ma in modo proattivo» spiega infatti Daniele Menci di Sony Records.

A testimoniare la realtà democratica della musica, l'esempio è quello del genere trap che, a dispetto di una totale assenza nei media tradizionali, ha numeri altissimi nello streaming, portando band come la Dark Polo Gang o Ghali a essere presenti nelle classifiche di vendita con percentuali del 70 o dell'80% grazie allo streaming e, addirittura – come nel caso del “trapper” milanese – portando 30mila nuovi utenti in più a Spotify: «Stanno seguendo il tracciato dell'ultima ondata di rapper come Fedez o Emis Killa 7 o 8 anni fa – dice Giovannini di Carosello Records – che non sapevano cosa fosse la radio. Anche questi ultimi artisti basano i loro grandi numeri sulla fanbase ed è possibile che Carl Brave X Franco126, un duo romano, facciano 6mila persone a Milano».

Di conseguenza, tale mutato aspetto della fruizione musicale ha imposto un ripensamento generale delle decisioni strategiche dell’industria, soprattutto dal punto di vista del saldo economico. Certamente stiamo assistendo ad un incremento in positivo legato al maggiore consumo di musica, grazie proprio alla facilità e libertà di accesso: «Non siamo certo ai livelli di 15 anni fa – dice Menci di Sony Music – ma penso che 10 anni fa un artista come Bacci, degli Ex Otago, per i numeri che c'erano durante la crisi, non avrebbe potuto partecipare a questo panel. Il grande sforzo che dobbiamo fare è sul trovare il modello economico sostenibile per investire».
Sul punto si trova d’accordo anche Giovannini di Carosello Records: «Oggi è cambiato tutto e non si è ancora raggiunto un balance che permetta a noi di investire soldi. Io fra 5 anni non so se sarò ancora in grado di reggere questa struttura e questo modello di business. Spotify, che è la piattaforma di streaming che ha un po' il monopolio in Italia, continua ad avere remunerazione bassissima».
Sono state parole di speranza quelle che hanno animato questo tavolo. Tutte le categorie cui l’industria musicale è affezionata, da quello di scouting degli artisti a quello stesso di casa discografica sembravano aver assunto l’immagine di concetti in movimento in un mondo anch’ esso mutevole, dove etichette indipendenti convivono al fianco delle Major senza definizioni in termini gerarchici, ma in un sistema fluido in cui le stesse categorie di indie e mainstream tendono a neutralizzarsi e alle quali finisce per sostituirsi la più generale locuzione "nuovo pop italiano", inteso nella sua accezione più alta, come musica popolare fruibile da una massa più consistente di ascoltatori, senza snobbismi.
E comunque un dato rassicurante in tutto questo panta rhei c’è; Come sostenuto da Menci e Giovannini, esso risiede nella possibilità di rintracciare un intento comune, sia che si parli di major, che di etichette più giovani e piccole, nel far crescere i talenti, al netto di creare modelli di business sostenibili o anticipare tendenze tecnologiche e modelli economici. Stando alle dichiarazioni di Menci della Sony, un ruolo importante è dunque rivestito dal proposito di allargare l’utenza più possibile e far pagare ad essa il giusto, così da consentire alle etichette una sostenibilità in termini di investimento, riferita soprattutto alla fase di promozione e distribuzione; Ciò non vuol dire imporre modelli di scrittura, di pensiero artistico, di concept musicale, di immagine, ma significa atteggiarsi ad acceleratori di talenti che hanno dimostrato di indossare una loro identità artistica, imponendosi nel panorama musicale senza talent e magari attraverso il passaparola sui Social Media.

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Questo non toglie che i prodotti impacchettati ad hoc dalle major, come i Riki di turno, continueranno ad esistere. Personaggi che nascono in televisione magari, che hanno l’attitudine a fare numeri altissimi e che propongono pezzi patinati destinati a durare il tempo di una chewing gum, più patinati di Riccione, che a confronto mantiene un suo concetto di indipendenza inteso come ideale estetico, non votato alla spersonalizzazione totale, in cui la libertà creativa e la sperimentazione esistono ancora. D’altronde Riki non se lo mangerebbe mai un panino sotto il cielo di Berlino. Bisognerebbe a questo punto interrogarsi su come la sperimentazione, la libertà creativa, l’investimento in contenuti di cui l’indie si è manifestato da sempre portavoce, si stia sviluppando, ma qui, non c’è tempo.
Non sarà dunque che l’indie si sta semplicemente manifestando per quello che alcuni hanno da sempre denunciato essere, scorgendo in esso una componente maliziosa che conduce i portavoce a solcare di volta in volta la strada che al meglio li elevi nell’olimpo dei cool? Non si sa, oggi l’unica cosa certa è che se fino a qualche anno fa l’indie esisteva soltanto in relazione al mainstream – quantomeno dal punto di vista retorico, definendo un oggetto in relazione al suo contrario – ora, l’indie, ammesso che si voglia continuare a chiamarlo così, ha natura di per se stesso, una natura in divenire, che necessita di essere ridefinita e che confluisce nel mainstream, rende originale la sua serialità, si serve di esso, si perde in esso.

Di Martina Petrucci.