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Musica

Caparezza : Fai da Tela, testo e interpretazione

Sabato, 19 Aprile 2014 20:11

Fai da Tela è l'inno alla privacy passiva, intesa nel senso giuridico del termine: è inutile impiegare la propria vita perseguendo l'obiettivo ideale di essere per gli altri quello che si vorrebbe che gli altri pensino di noi; è meglio fare da tela e lasciare che la gente, o meglio noi stessi, ci dipinga come può, come vuole e come crede. 

Nel frattempo potete godervi la lettura delle interpretazioni di Cover  e di Non me lo posso permettere, Giotto Beat e Mica Van Gogh e  è tardi!

 

Non nascondo la meravigliosa fatica impiegata nella interpretazione di questo testo: in tre minuti di Fai da Tela c'è tutto Caparezza, c'è il dissesto interiore del Caparezza uomo, l'epifania del più straordinario dono che la natura ha concesso a Salvemini, la capacità di collegare come nessun altro immagini e parole, parole e parole, immagini e immagini; la cultura del pugliese; il genio musicale riscontrabile nel beat, malinconico, energico, catartico; la visione della vita del Capa; e a gran sorpresa, elemento non riscontrabile, almeno a prima vista, forse per la maturità sopraggiunta, nei brani degli altri lavori Rezziani, la traccia del pensiero filosofico. ( C'è anche Diego Perrone, personaggio importante nella crescita artistica e mediatica di Caparezza). Nell'esposizione Museicale, Fai da Tela è il brano in cui Caparezza si è ritratto con le pennellate più calde, più nette, più belle. 

 

La mia testa nei morsi di gogna,
i sensi di colpa, 
nei sorsi di Cognac.
La paranoia che nelle sere mi ingoia,
come un bicchiere di Nero di Troia,
dipingo pitture nere di Goya.

Premetto ancora che l'uso delle immagini che ho fatto è stato più contorto che nell'interpretazione degli altri brani, quindi vi invito solo a lanciare una breve occhiata alle icone sottostanti, solo per aver chiaro in mente di cosa parliamo. Almeno per queste prime quattro. 

Il brano comincia con i segnali di una crisi, se non depressiva, quanto meno riflessiva, del nostro amato Capa. Grida, scalpita, soffre di dolore la coscienza dell'autore, intrappolata nel morso della gogna. La gogna di cui si parla è quella mediatica, costruita dalle critiche sciape, i pregiudizi, le banalità e i luoghi comuni che in questi anni di carriera è stato costretto a sopportare. Affoga nel Cognac il senso di colpa, forse uno dei sentimenti più difficili da superare e sopportare; ingoia il Nero di Troia, vino tipico del Gargano - anche in questo brano non viene dimenticata la cara Puglia e le origini- e viene ingoiato dalla paranoia, che scende quando tutto si fa buio e cala la sera, quando tutto diventa nero, come nere sono le pitture da cui ha preso ispirazione per i brani più drammatici di questo brano, come " Saturno che divora i suoi figli", che ispira Figli d'Arte, proprio ad opera di Francisco Goya. Il fantasma della gogna mediatica ispira la creatità di Caparezza. Insomma, con la prima sestina il brano imprime la sua verve riflessiva e dannata, mostra già parte del messaggio della canzone, sopratutto nel lemma "gogna", e soprattutto incanta con le rime baciate ingoia-Troia-Goya, le rime interne sere-bicchiere-pitture, e la pennellata retorica Nero-nere. Che POETA! 

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Come se non meritassi ciò che ho,
come se contassi ma per quante ciocche ho. 
Assuefatto al fastidio prendo merda
addosso e mica la schivo,
chiamami Steve-O.

Prende forma espressa il dolore di Salvemini. La sensazione di non meritare ciò che si ha è tipica dell'artista tra un disco e l'altro, ma soprattutto la sensazione di essere ormai visto dall'opinione pubblica ritratto nel cliché dei capelli. Pensateci: quando incontrate un uomo con i capelli ricci e molto folti, siete immediatamente portati a dire che assomiglia a Caparezza. Guardavo stasera l'esibizione di Capa a Rai Tre da Fazio, e la Littizzetto, peraltro di solito mai banale, non è riuscita a trattenersi dal fare la battutina sui capelli e sui pidocchi della Pala Eolica sulla Statale. Come evidenziato già in numerosi brani della produzione Rezziana ( "folla di tricofobici mai doma, prendi le forbici e tagliami i riccioli con foga, da Annunciatemi al Pubblico", " Chi è fuori dal branco, conosce con fermezza, l'ebbrezza di una Capa quando è Rezza, da Nessuna Razza" L'agguanto solo per sentirmi vivo al guscio della mia capigliatura, da La fitta sassaiuola dell'ingiuria, Branduardi"), i capelli sono stati e sono croce e delizia nella carriera del Salvemini: da una uno straordinario strumento di "photo marketing" per essere ricordato dall'opinione pubblica, in quanto bizzarro ed originale, d'altra parte luogo comune e pregiudizio così fondante da offuscare il genio letterario e musicale. E dalla testa e dai capelli parte per approfondire il tema che ho battezzato già nel sottotitolo come l'inno alla privacy passiva: lascia che il mondo pensi di te quello che sembra che tu sia. . Insomma, il nostro Capa, per quanto incastrato nei sensi di colpa e nei suoi capelli, si prende i calci e il fango dell'opinione pubblica, senza fiatare, come il protagonista della serie Jackass, Steve O, che, come potete osservare dal video, non è certo famoso per aver schivato sterco. 

 

Vivo in un sogno surreale come Dalì,
Qualcuno mi chiede:
"Michele dimmi com'è da lì?
Come non si era mai visto prima,
Uno sballo senza dietliamide né mescalina.

Il brano è retto dalla dicotomia tra l'interiorità dell'autore e la sua persona, inteso nel senso etimologico del termine - dal latino "personare", che indicava il compito della maschera del teatro antico, quello di amplificazione della voce; quindi persona intesa come maschera, il complesso degli atteggiamenti e degli sguardi che vestiamo di volta in volta a contatto con realtà diverse-. E nell'interiorità di Caparezza c'è il surrealismo onirico di Salvador Dalì, la desolazione dei suoi paesaggi e la bellezza distorta e sognante delle sue ambientazioni. Qualcuno gli chiede com'è da lì ( forse riferimento anche alla sua altezza stratosferica), ecco il contatto interiorità e ambiente esterno: la risposta è secca, l'ennesima celebrazione della creatività, "uno sballo", senza bisogno di droghe o allucinogeni. 

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Ti dò una dritta, 
appendimi al muro come un Magritte, 
mettici su la mia faccia e sotto la scritta:
"Ceci n'è pas na pip!"

Rido quando penso che Caparezza mi abbia, per assurdo, lanciato delle vere e proprie chiavi, sparse nei suoi testi, per interpretarli al meglio. Qui la chiave è lasciata sotto lo zerbino, in bella vista, segnalata da un cartello con scritto " Ti dò una dritta". Ed è contenuto in "Ceci n'è pas une pipe", straordinaria opera di Renè Magritte, un incredibile e visionario risvolto del brano: il pittore belga con questa tela, voleva dimostrare al pubblico del primo novecento, abituato ancora alle limitazioni dell'arte figurativa, che c'è un ampio e delimitato confine tra la realtà e la rappresentazione. Quella raffigurata non è realmente una pipa, è solo il disegno di una pipa. E così, se appendi al muro una foto di Caparezza, con sotto la scritta "Ceci n'è pas na pip", non solo non hai la la foto di una pippa, ma del più grande cantautore degli anni 2010, ma soprattutto non hai Michele Salvemini, ma soltanto quello che tu pensi che sia Caparezza. Non hai la realtà del soggetto, ma solo la sua rappresentazione grafica; non hai l'essenza e l'anima dell'artista Caparezza, ma soltanto la traccia psicologica del tuo ritratto di Caparezza. 

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O mettici quello che vuoi,
tanto non cambia.
Ascolto una voce che parla con calma:
Rit.
Fai, fai da, fai da te, fai da tela,
e lascia che la gente ti dipinga
come può, come deve, come crede.

Ecco l'inno alla privacy passiva, cantato nel ritornello di questo brano dalla splendida voce di Diego Perrone. Tu, ascoltatore, lettore e visitatore del museo, hai avuto modo di capire come sia lontano e labile il contatto tra la realtà delle cose e la sua rappresentazione nell'immaginario comune, quello degli altri. E allora, l'esortazione etico-filosofica dell'autore è questa:

1- Fai. Agisci, comportati come credi sia giusto, fai quello che vuoi e quello che più rappresenta il tuo essere, o meglio, quello che anche tu credi essere il tuo essere.

2- Fai da. Sii strumento di qualcosa di più grande di te, adattati alla realtà delle cose, spingiti e sforzati a fare anche quello che non vorresti, ma che sai essere giusto o apprezzato dalla collettività, senza che questo ti causi un danno interiore più grande dell'utilità che ti arreca. 

3- Fai da te. Non essere dipendente da niente e da nessuno; nell'insieme delle cose che fai, anche scendendo a compromessi, non deve essercene nessuna che cozzi col tuo essere perché forzata, influenzata o costretta da qualcun altro. Sii indipendente.

4 Fai da tela. Una volta osservato che è inutile lottare per sembrare agli occhi degli altri quello che siamo davvero, poiché è abissale e insormontabile la distanza tra la realtà delle cose e il loro essere, lascia che gli altri, la gente, ti consideri come vuole, lascia che gli altri dipingano i tratti della tua personalità e della tua persona come credono. In sostanza, sbattitene dell'opinione della gente. Vinci la battaglia interiore, mostrata nei primi versi, con un consapevole menefreghismo nei confronti dell'idea che la collettività ha di te. Filosofia e poesia, musica e genio, applausi per Caparezza, lacrimuccia sul viso. Brividi.

La gente.
Tutti ce l'abbiamo con la gente, 
come se non ne fossimo parte,  
ci si estromette sempre.

Dopo aver analizzato puntualmente nella prima strofa il rapporto tra la soggettività e l'opinione pubblica, la Pala Eolica sulla statale fa il lavoro all'inverso. Adesso è chi produce l'opinione pubblica, la gente, ad essere messa sotto la lente d'ingrandimento. E qual è la inaspettata conclusione a cui si arriva? La gente, cioè chi ci ha dato la paranoia, chi ci ha innestato i sensi di colpa, chi ci ha ispirato le pitture nere, siamo nient'altro che noi. Siamo parte anche a noi della giuria che ogni giorno fa il bilancio delle nostre azioni e delle nostre omissioni, siamo anche noi, anche se cerchiamo di estrometterci, parte di chi, con il suo giudizio, ci inquieta. 

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Sempre, vorremmo la perfezione ma non può essere.
Essere ci viene male come le fototessere.

Vorremmo sempre la perfezione, vorremmo sempre che la gente, ovvero noi, ci rappresenti come puri, bravi, casti, fichi, moderni, ma tutto ciò non può accadere. E proprio perché falliamo l'obiettivo di sembrare, anche essere, cioè agire concordemente con la nostra natura, ci viene male, come vengono sempre male le fototessere, il momento in cui cerchiamo di essere più belli possibile agli occhi degli altri. Grazie mille a Tommaso de Santo e a Eugenio Leoni che ci hanno permesso di scoprire quale particolarissima figura retorica il Capa usi in questa terzina, l'anadiplosi! (Ovvero l'uso della stessa parola all'inizio e alla fine del verso)

Dubbi. Chissà se è bastardo,
chissà se è castrato,
chissa se è bastato.
Nasconde la follia,
chissà se la stano.
Mantegna insegna a fare delle frecciate 
un'icona, San Sebastiano.

Il quadro che ha ispirato questo brano è "The Little Dear" di Frida Kahlo. Nel quadro, dipinto poco prima della prematura morte, l'artista messicana vuole mostrare il suo immenso dolore fisico e lo strazio della malattia, ma anche il dolore spirituale dell'infanzia spezzata ( vedi l'ulivo spezzato sotto gi zoccoli della chimera). Bene, e questo che centra con Fai da Tela? Le frecce conficcate nel dorso di Frida-Cervo, riportano alla mente il San Sebastiano del Mantegna e la sua leggendaria agiografia: il santo era un generale di Diocleziano, ma al contrario dell'imperatore Dalmata, strenue persecutore dei cristiani, credeva in un solo Dio ed era fedele a Cristo. Una volta scoperto il credo religioso del santo, Diocleziano, indignato per aver avuto alle sue dipendenze un cristiano, lo condanna ad una delle morti più infami e dolorose, lo stillicidio di frecce. Il mito racconta che il santo, vivo nonostante fosse cosparso di frecce tornò dall'imperatore, per poi essere flagellato e ucciso. Bene, nel martirio di San Sebastiano c'è un'altro indizio alla conclusione tracciata nell'interpretazione del ritornello: Mantegna, ritraendolo così meravigliosamente, ha fatto del martirio di Sebastiano e delle sue frecciate un'icona, così anche noi dovremmo smettere di preoccuparci delle critiche, anzi, dovremmo utilizzarle per creare il nostro personaggio, la nostra icona. E fare, ancora una volta, da tela. 

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Sospetto Vago , vago, 
spettro di Christmas Carol, 
ma da Escher non si esce
e mi ritrovo qui da capo.

Il brano sta per terminare, e lentamente si torna all'angoscia e alla paranoia dei primi versi. Con il sospetto vago che tutto quello che è stato raccontato sia vero, Caparezza vaga nei meandri della sua mente come lo spettro di " A Christmas Carol" ad opera di Charles Dickens, letterato molto caro all'autore evidentemente ( vedi Mica Van Gogh e Canzone a Metà). E il labirinto, da cui non riesce a uscire e in cui vaga, si materializza ancora una volta nell'arte, in particolare qui nelle incisioni di Mauritz Cornelis Escher, celebre surrealista, noto per le sue costruzioni impossibili, le sue esplorazioni dell'infinito, i suoi labirinti.

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intrappolato nelle mia visione dela vita, caro, 

io con le mie sopracciglia da Frida Kahlo.

Questo "caro" mi è suonato strano per lungo tempo; dopo un'analisi più approfondita mi è risultato ancora più bizzarro. Caparezza rompe la barriera tra se stesso, l'autore, e lo spettatore, e lo invoca, lo chiama " caro". E non è così semplice rintracciare esempi del genere nella discografia Rezziana. Il riferimento alle sopracciglia e a Frida Kahlo, a mio parere, è solo un rimando chiarificatore alla complessa interazione tra "The little dear" e il San Sebastiano di Mantegna che abbiamo spiegato in precedenza. Mi piaceva però mostrare anche il momento in cui le sopracciglia di Salvemini sono somigliate di più a quelle di Frida Kahlo: il momento in cui Caparezza non esisteva e c'era Mikymix, che si esibiva a Sanremo, in una performance che non vi linko per non fare in modo che anche voi, come me, siate vittime di una crisi spirituale. Come si può cambiare in questo modo? Solo Capa può. Post scriptum: quanto è bella la rima perfetta Kahlo-calo?

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calo la mia testa nei morsi di gogna,
i sensi di colpa nei sorsi di Cognac.
La paranoia
che nelle sere
mi ingoia,
come un bicchiere di vino di Troia,
viene l'angoscia come ad Utoya.

Cambia solo l'ultimo verso rispetto all'incipit del brano. Il riferimento è alla strage di Utoya, isola norvegese nota per il massacro di più di 70 ragazzi ad opera di un pazzo criminale, che senza un motivo valido, ha aperto il fuoco sul folto gruppo di giovani in ritiro sull'isola. Che angoscia. 

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Rit.
Siamo come tele

L'ultimo ritornello rappresenta, a mio parere, l'apice di tutto Museica. La cadenza ritmata, il ruggito di Diego Perrone, la melodia struggente, impregnata di tutto il significato malinconico e filosofico descritto in questo lungo lavoro, sono semplicemente da brividi. Gli stessi che provo ascoltando questa canzone per la duecentesima volta, in un loop che non stanca mai, emoziona sempre, illumina sempre, mi fa riflettere, sempre.

Spero che, come successo per Cover, Non me lo posso permettere, Giotto Beat e Mica Van Gogh sarete in tanti a scrivere sulla nostra pagina Radio Libera Tutti per consigliare interpretazione più puntuali, esprimere i vostri pareri, discutere con me delle canzoni e perché no, interpretare anche voi un pezzo, visto che essendo un lavoro lungo e faticoso, non potrò farlo per tutti i brani di Museica. 

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