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Musica

Caparezza: Larsen, testo e interpretazione

Lunedì, 09 Ottobre 2017 20:19

Larsen è il racconto lucido di un dramma intellettuale e personale: quello di Michele Salvemini, in arte Caparezza, scaturito dalla scoperta di aver contratto l’acufene.

Ho scelto questo brano per iniziare questo ciclo di interpretazioni di “Prisoner 709” perché se è vero che quest’ultimo disco di Caparezza è il suo più lavoro più intimo ed introspettivo, allora per offrire un impatto più a lungo del raggio del disco bisognava iniziare dal brano più personale ed autobiografico.

Non posso non iniziare quest’articolo dedicando un pensiero a tutti i lettori degli articoli delle interpretazioni dei brani di Museica: in tanti di voi mi hanno scritto chiedendomi dove fossero le interpretazioni di Prisoner 709, eccoci! Scusate il ritardo, ma per questo disco seguiremo tempistiche di uscita degli articoli più cadenzate, così che possa continuarsi a parlare di Caparezza anche oltre il periodo di promozione del disco.

L’ho conosciuto tipo nel 2015
Visto che ancora ci convivo brindo quindi cin.

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Capa ha raccontato in molte delle sue interviste di lancio del disco, che reperite gratuitamente su Youtube, di essersi accorto di aver contratto l’acufene durante il tour correlato a Museica, nel 2015. “Durante un concerto comincio a sentire un fischio nell’orecchio. Il giorno dopo continua, e faccio finta di niente. Il giorno dopo ancora lo stesso. Tre giorni dopo, ancora il fischio nell’orecchio, e continuo ad ignorarlo. Dopo dieci giorni ho capito di essermi ammalato di acufene”.

L’aspetto che mi ha spinto a soffermarmi su questo brano sono due versi contenuti in “Canzone all’uscita”, ultima traccia di Museica. Due versi che non ero riuscito a comprendere a pieno, e che una volta venuto a conoscenza della malattia del Capa assumevano tutta un’altra veste: “Acufene, fischi, se ciò che canto ha peso lascialo appeso sulla parete: museo con dischi”. Ma Museica è uscito nel 2014, quindi non poteva esserci, all’epoca, nessun collegamento tra la malattia e i versi che abbiamo appena citato. Forse che la nostra Pala eolica sulla statale abbia acquisito anche la capacità di vedere nel suo futuro?

D’allora nei miei timpani ne porto i sibili
Ogni giorno come fossi di ritorno da uno show degli AC/DC.

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È vero, solo chi ce l’ha può comprendere cosa sia l’acufene. Ma sarà capitato a tutti noi che abbiamo frequentato ambienti ad elevatissimo standard di decibel, di svegliarci con un fischio costante all’orecchio. E sarà capitato a tutti – magari dopo un’ora di handbanging sotto cassa, oppure semplicemente dopo ore di smorfinamento sotto cassa- di pensare che quel fischio non sarebbe più andato via. Come dopo un concerto degli AC/DC.

Larsen.

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Caparezza sceglie di personificare la malattia che vive con un cognome: Larsen. Il riferimento è al fisico acustico Soren Absalon Larsen, cui si può attribuire la scoperta del c.d. effetto Larsen, che è quello che in termini musicali spiccioli viene definito ritorno, o feedback acustico. Ancora più in pratica, l’effetto Larsen è lo stridio, il fischio che si manifesta quando un microfono è troppo vicino oppure è direzionato verso il suo altoparlante. È ciò che succede quando il pickup della chitarra e l’ampli sono troppo vicini, o quando il cantante punta il suo microfono verso la cassa spia. Immaginate quel fischio, dunque, quello che vi ha fatto storcere la bocca e imprecare l’ultima volta che siete andati ad un’esibizione rock di piccole dimensioni, riprodotto nelle vostre orecchie usque ad finem. Questo è l’acufene secondo Caparezza.

Fischiava per la mia attenzione, un po’ come si fa con i taxi
Senza una tregua una continuazione ma come si fa a coricarsi
Da solo nel letto a dannarmi, nella stanza cori urlanti
Di colpo leggevo i labiali, quindi basta coi romanzi

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Capa apre una parte del brano in cui Larsen, ovvero l’acufene, viene rappresentato con delle metafore che rendono vivissimo il fischio che deriva dalla malattia. E quindi Larsen fischia, nega a Michele la possibilità di concentrarsi, perché attira la sua attenzione, come del resto fischiamo noi a un taxi per attirare l’attenzione del tassista. Immaginate poi quanto sia difficile prendere sonno con uno stridio perpetuo nel cervello. Non funziona più la solita lettura notturna nel letto: Michele descrive la sua stanza riempita di cori che urlano, ed è quindi come se l’acufene desse voce – una voce stridula e insistente- alle parole delle sue letture. Quindi basta coi romanzi.

Lo potevo calmare al mare
Quiete stellare, Antares

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Il suono caldo, dolce, e persistente del bagnasciuga da un po’ di tregua, dice Capa. Il mare offre una quiete irraggiungibile in un qualsiasi altro luogo dell’universo: di qui una quiete stellare, un posto lontano 600 anni luce dal mondo, Antares, una stella supergigante rossa grande 850 volte il sole.

Con l’orecchio preso a mazzate
Conor McGregor, Alvarez

Il riferimento è a questo sconto tra il celebre Mc Gregor e il meno famoso Alvarez – almeno credo, non capisco nulla né di arti marziali né di MMA- in cui McGregor dà una valanga di cazzottoni al povero Alvarez, che infatti al minuto 12 del video perde sangue proprio dall’orecchio in maniera molto preoccupante.

Uno squillo ossessivo, come un pugno su un clacson.
Primo pensiero al mattino,
l’ultimo prima di buttarmi giù dal terrazzo.

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Ancora un’immagine sonora: ci sarà capitato più volte di doverci subire ( o anche di dover fare) una bella strombazzata di clacson finalizzata ad identificare il bastardo che ha parcheggiato in doppia fila, o davanti al garage, ed impedisce ad una macchina di uscire.
Tetri, poi, i versi che anticipano immediatamente il ritornello: Larsen è il primo pensiero che sveglia Caparezza al mattino, e sarebbe l’ultimo se decidesse di farla finita.

Fischia l’orecchio infuria l’acufene
Nella testa vuvuzela mica l’ukulele

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L’allegoria dell’acufene prende forma anche in questo ritornello, orecchiabile, radiofonico, ma allo stesso tempo tremendo, profondo, intensissimo. Nella testa di Caparezza non c’è più l’allegria e le melodie stuzzicanti, l’ukulele, ma un fischio assordante, insopportabile, come quello delle vuvuzela in tutti i 90 minuti di tutte le sante partite di Sud Africa 2010, le ricorderete.

La mia resistenza è quella zulu, cede
Se arriva Larsen te lo devi tenere

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Non desiste Michele, lotta con tutte le forze contro il suo nemico. Così fecero anche gli Zulu alla fine del ‘800 nella guerra contro gli inglesi: una lotta impari, con un esito scontato, ovvero la vittoria britannica, ma in cui gli africani non si arresero e finirono per essere massacrati dall’artiglieria della regina nella battaglia di Ulundi. Nella testa del Capa, invece il conflitto è tra il desiderio di guarire e la consapevolezza che all’acufene non c’è cura; ed infatti il ritornello si interfaccia con dei cori lontani che intonano “fino alla fine” come canti di sirene che suonano come una sentenza: se arriva Larsen te lo devi tenere.

Parlo di Larsen e metto mano alla fondina
Alzo la cortina
Sentivo fischi pure se il locale carico applaudiva
Calo d’autostima
.

La nostra Pala eolica sulla statale inizia il secondo ritornello presentandoci – e mi scuserete il linguaggio un po’ astruso- i riflessi psicologici e behaviouristici della sua malattia. Pensate quanto sia difficile, soprattutto per un personaggio pubblico come Caparezza, convivere con un morbo del genere: è un fischio persistente, quindi anche nelle conversazioni con le persone che ama, sarà un discorso ricorrente. Di qui la voglia di non parlarne – metto mano alla fondina, se ne parlo mi viene voglia di spararmi- che è solo logicamente antecedente alla voglia di non parlare con nessuno – alzo la cortina-.
Poi due versi che appena ascoltati mi sembravano un’immagine, una metafora: ed invece in une delle interviste di cui vi parlavo in precedenza, il Capa ha confessato di aver realmente sofferto per questo aspetto. Ricordiamo, infatti, che la scoperta dell’acufene avviene in pieno Museica tour, e che Michele non ha annullato nessun concerto per questo motivo. Caparezza ha realmente immaginato – a causa del fischio perenne che ha nel cervello- che durante i concerti lo fischiassero, anche se vedeva il locale pieno e coinvolto. Di qui un calo d’autostima che ha anche bloccato il flusso creativo.

Non potevo ascoltare la musica come l’ascoltavo prima
Io Lagostina, una pressione continua
La depressione poi l’ira.

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Cambia considerevolmente anche il rapporto tra Michele e la musica: noi fan conosciamo la voracità dei suoi ascolti, ma anche i profani potevano immaginarla ascoltando uno a caso tra i suoi dischi.
Ecco poi l’analogia tra Michele e una pentola a pressione – che quando arriva a far bollire l’acqua fischia, no?- , di cui la Lagostina rappresenta il modello più famoso in Italia nel dopoguerra.
La chiama col suo nome Caparezza: quel morbo oscuro che è la depressione, che si trasforma in rabbia, in irascibilità.

Mi rivolsi ad uno specialista
Che mi disse c’è una sola cura
Come prima cosa nella lista
Parla con l’orecchio, chiedi scusa
Poi compresse, flebo doppie
RM, ecodoppler
Ecodiete, ecatombe
Larsen indenne, era stalker

La rabbia si trasforma quindi in tentativo di reazione: Capa comincia a farsi visitare da qualche medico. Divertente è il caso del primo che viene citato, e del suo consiglio quasi esoterico di conferire con l’orecchio malato e di chiedergli scusa. E poi in fila, e con la solite rime travolgenti, tutte le cure tentate in questo periodo: il risultato? Larsen è indenne, era stalker, un molestatore accanito.

Credevano che fossi matto
Volevano portarmi dentro
Ho visto più medici in un anno
Che Firenze nel Rinascimento
Stress
Iniziano a dire non sanno che pesci pigliare
A parte quello d’aprile
Vorrei vederlo sparire, ma…

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Questa parte della seconda strofa è abbastanza leggibile, non ha bisogno di interpretazione. Da evidenziare solo il parallelo tra i medici da cui Caparezza si è fatto visitare e i Medici, la dinastia dominante a Firenze nel’400 e nel ‘500. Ed anche quello tra i pesci che i medici non sanno più pigliare e il pesce d’aprile.

So come ama Larsen e so com’è ammalarsene
So che significa stare in un cinema con la voglia di andarsene
Contro Larsen, l’arsenale
Non pensavo m’andasse male
Solo chi ce l’ha comprende quello che sento nel senso letterale

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L’angoscia della malattia pervade il nostro Michele in tutti gli ambienti: tremenda l’immagine di un uomo che entra al cinema in preda alla voglia di andarsene. Ha usato tutte le sue forze, tutto il suo arsenale, ma ha fallito. Suggestivo il verso in cui il Capa riprende un luogo comune “solo chi lo vive può capire cosa si senta”, e lo declina nel senso letterale, perché solo chi ha l’acufene può capire quale suono produca nel cervello.

E poi non mi concentro, mi stanca
Sto invocando pietà, Larsen
Il suono del silenzio a me manca
Più che a Simon e Garfunkel

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Ovviamente la malattia si ripercuote anche sul grado di concentrazione, di cui un qualsiasi artista ha bisogno per esprimere sé stesso. Non ce la fa più, invoca pietà, il suono del silenzio gli manca più che a Paul Simon e Art Garfunkel: il riferimento è ovviamente a “The Sound of Silence”, colonna della musica leggera mondiale, pezzo del ’64 del magico duo statunitense.

Nel cervello c’è Tom Morello che mi manda feedback
Hai voluto il rock? Ora tienilo
Fino alla fine.

Gli ultimi tre versi di questo percorso alla scoperta di Michele e della sua malattia sono tanto icastici quanto malinconici: uno dei riferimento è a “Until the end”, brano del 2007, il cui autore è Tom Morello outta Rage Against the Machine ( e Audioslave) nel suo progetto solista ovvero “The Nightwatchman”. L’altro riferimento è al termine feedback, che come abbiamo visto in precedenza è un altro modo di definire l’effetto Larsen. E poi c’è la dura accettazione della realtà da parte di Michele: hai voluto il Rock? Ti sei sparato quantità spropositate di decibel nelle orecchie tra ascolti privati, registrazioni, live, e mo tieniti l’acufene.
Ma la cosa che più inquieta la riflessione e il canto del nostro Capa è sicuramente la potenzialità dell’eternità della malattia. Lo spaventa il non poter godere mai più della pace del silenzio, lo atterriscono sì tutte le prospettive che ha così suggestivamente descritto in queste lyrics, ma soprattutto, la loro eternità.

Abbiamo finito lo spazio per l’ermeneutica, è arrivato il momento di un appello, anzi di un invito alla calma. È tremendo ascoltare una canzone come questa per noi che amiamo Caparezza nel senso letterale del termine, nel senso che gli vogliamo proprio bene per tutto quello che ci ha insegnato, per quanto ci ha fatto divertire e riflettere. È un lucidissimo racconto della sua malattia, di una malattia che non si può curare. Allora provo a coniugarla, come sempre faccio, in una prospettiva epicurea:

  1. Se Capa guarisce.

Noi siamo stracontenti della guarigione, e non vediamo l’ora che arrivi il 2020 per il prossimo album.

  1. Se invece non guarisce.

Sarebbe l’ennesima conferma del genio immenso di Michele Salvemini, nel parallelo, che non sarà sfuggito nemmeno ai meno attenti, con Ludwig Van Beethoven.

Di Terenzio Ciancarelli.