Un classico del teatro approda al teatro Stanze Segrete: il pubblico è interamente immerso nel dramma russo, magistralmente interpretato da attori di alto livello
“Se siete venuti a vedere questo spettacolo è perché siete dei pazzi!”.
Così Ennio Coltorti, regista e attore de “il Gabbiano” in scena al teatro Stanze Segrete si rivolge al pubblico in sala. Ci vuole un briciolo di follia per assistere a questa opera?
Valutatelo voi.
Appena entrati all’interno del teatro si assiste a una meravigliosa scoperta: non c’è palcoscenico. Il pubblico è seduto a pochi centimetri dagli attori che, modulando perfettamente il tono di voce e cercando di non alzarlo eccessivamente, fanno vivere allo spettatore l’opera. Il pubblico da così vicino può esaminare qualsiasi sfumatura espressiva di ogni attore, analizzando anche i costumi e gli oggetti di scena, così veri e vividi.
All’inizio si ha paura di imbarazzarsi: gli attori sono vicini e la caduta della quarta parete può mettere a disagio lo spettatore. Gli attori de “il Gabbiano”, invece, mantengono le distanze non allontanandosi dal pubblico, che così vive in serenità lo spettacolo.
Una storia di amori, di tradimenti, di paure e di ossessioni, che ruota attorno a una figura di un gabbiano, che rappresenta la caducità di una giovane ragazza, distrutta da un misterioso amante.
Altro elemento di ‘follia’: Cechov aveva inserito nella sua opera una rappresentazione teatrale, un teatro nel teatro, alla quale gli attori de “il Gabbiano” assistono. Al teatro Stanze Segrete viene allestito un piccolo palco sopraelevato: una bella trovata, d’impatto. Spettatori e attori diventano simultaneamente il pubblico del monologo rappresentato nell’opera di Cechov.
Come non ricordare, poi, gli attori: da Gianna Paola Scaffidi a Pietro Biondi, passando per Marco Mete ed Ennio Coltorti, famosi doppiatori e attori che recitano magistralmente all’interno del dramma russo.
“Il Gabbiano” sarà in scena al teatro Stanze Segrete fino al 4 febbraio 2018, dal martedì al sabato alle ore 21 e la domenica alle ore 19.
Maurizio Costa
L’operazione di Stefano Reali, in scena al Teatro Roma in questi giorni, interpretata da Nicolas Vaporidis, Antonio Catania e Maurizio Mattioli, per la regia dello stesso Reali, narra le vicende, grottesche ma vere, che possono avvenire all’interno d’una struttura sanitaria pubblica.
Le interminabili liste di attesa che debbono subire i pazienti prima di ricevere una prestazione medica; le vicende di corruzione mini ma – favoritismi per farsi operare o visitare dal primario di un reparto, e posti letto messi in vendita da malati in accordo col personale medico e paramedico – non sono che il pretesto per dar vita ad una serie di scenette e siparietti comici al fine di dilettare il pubblico. E se ci si limitasse a questo non vi sarebbero problemi. Il punto è quando un lavoro simile vuole assumere la pretesa d’essere metafora, simbolica e ben più ampia, del nostro tempo: in tal caso, bisogna dire che l’intento non coglie nel segno.
E perché? Perché è tutto troppo evidente. Il gioco immediatamente rivelato. Il pubblico non è provocato né invitato a porsi interrogativi su ciò che si sta vivendo in questo terribile periodo storico, né ad ipotizzare eventuali soluzioni per un radicale mutamento di rotta.
L’idea sarebbe potuta essere buona, originale anche. Ma si sarebbe dovuto rinunciare a qualche risata in più e ad applicarsi nel costruire un quadro drammaturgico d’insieme più ambiguo. Ciò che non è accaduto.
Anche le direttive di regia sembrano mancare. Gli interpreti – eccettuato Catania che, da attore ormai navigato, riesce ad essere sufficientemente efficace nel suo ruolo di degente malato e meschino venditore illegale di posti letto – si limitano a pronunciare le battute senza farle proprie. Sembra quasi che le leggano avendo in mano il copione.
Vaporidis, che tutti conoscono per i suoi ruoli – facili e stereotipati in Notte prima degli esami e film consimili – non riesce a liberarsi dal suo esautorato ruolo-cliché di adolescente superficiale, né si adopera per farlo. Anche mimicamente non ha presenza: quando non parla ma è comunque in scena, somiglia ad una sagoma di cartone che si anima di tanto in tanto per poi ripiombare nel silenzio e tornare ad essere un rigido e quasi inesistente manichino (e prova emblematica, per un attore, è proprio quella di saper stare in scena e recitare comunque, anche se non si proferisce verbo).
Il ruolo di Maurizio Mattioli – assente per un improvviso malore – è stato interpretato dallo stesso Reali al quale, non essendo attore, non si può certo rimproverare una totale mancanza di caratterizzazione del suo personaggio di infermiere corrotto in società col malato Catania.
Il pubblico ha timidamente riso, applaudito anche. Ma chiediamoci: di questo spettacolo e del suo ingenuo contenuto – così riassumibile: in Italia la corruzione non si arresta neppure in situazioni limite come la malattia – cosa rimane? La delusione per un’occasione persa.
Il punto è che fare teatro – scriverlo, metterlo in scena e recitarlo – è cosa ben più complessa di ciò che comunemente si pensa: si richiede approfondita cultura, tanta ironia e raffinata leggerezza. Qualità di cui L’operazione difetta: nella scrittura, nella regia e nell’interpretazione degli attori.
Pierluigi Pietricola
Per scrivere il musical La regina di ghiaccio, Maurizio Colombi e Giulio Nannini avranno pensato: “Come incuriosire i bimbi per il mondo del teatro? Che storia scegliere, fra le molte e bellissime che vi sono”? E così, scartabellando migliaia di copioni, libretti e partiture d’opera, ecco far capolino lui: il Maestro Giacomo Puccini con la sua eternamente bella Turandot.
Con una magnifica e tutt’ora insuperata idea critica, Giovanni Macchia rassomigliò il teatro di Luigi Pirandello a una stanza della tortura nella quale i personaggi vengono rinchiusi e, sotto la pressione d’uno stringente interrogatorio, pian piano smettono i panni della finzione e confessano ciò che realmente sono – o si presume siano.
Non solo la poetica della maschera, dei ruoli a forza attribuiti alle persone dalla società: ma la bramosia di voler giungere al cuore delle cose attraverso l’artificio della finzione per eccellenza: il teatro. Sul palcoscenico si vedranno i fatti. Ma quali: gli autentici o quelli che si pensa siano veri? Di questo dilemma, per quanto si cerchi di trovarne la soluzione e venirne a capo, non si riuscirà mai a districarne le maglie. È ciò che rende grande il teatro di Pirandello, fra le maggiori espressioni drammaturgiche del Novecento italiano ed europeo.
In Vestire gli ignudi (in scena al teatro Arcobaleno di Roma per la regia di Giuseppe Argirò) questa poetica della ricerca della verità è messa in mostra. In una modesta e ordinaria stanza affittata ad uno scrittore, si consuma la “commedia d’una bugia scoperta”, quella di Ersilia Drei: donna che mai ha avuto la forza di essere qualcosa, e che tutti hanno depredato di ciò a cui l’essere umano più aspira: una personalità e una dignità. Ella è raggirata e delusa da tutti. È corteggiata per mero e banale dongiovannismo e non arriverà mai a conoscere la verità dell’amore. Unico riscatto che crede di dare alla sua disgraziata vita: uccidersi per morire indossando un dignitoso abitino. Gioia miserella, di cui Ersilia verrà egualmente privata.
Pirandello orchestra questo dramma attraverso dialoghi serrati e situazioni che pian piano divengono più soffocanti rendendo opprimente l’atmosfera. Intorno ad Ersilia si avviluppa un grumo di ipocrisie: dello scrittore Ludovico Nota che vede in lei un personaggio da utilizzare per un suo romanzo; del tenente Laspiga che forse realizza di amarla; del console Grotti che tenta di motivare la violenza carnale fattale subire con patetiche giustificazioni.
Tutto ciò nella regia di Argirò si percepisce pochissimo. I personaggi non vengono messi alle strette e, lasciati liberi di girovagare, sono rincorsi dagli attori che a fatica li catturano facendoli propri.
Si accenna, nello spettacolo, a qualche “pirandellismo” ma senza esagerare: come – ad esempio – la recitazione della didascalia iniziale per contestualizzare la commedia, e gli attori che rendono palcoscenico la platea mostrando così, del teatro, la sua convenzionalità.
Questo Vestire gli ignudi non si può dire sia stato un brutto spettacolo, nonostante i limiti di cui si è poc’anzi detto. Sarebbero bastati più carattere e un pizzico di spregiudicata crudeltà nel trattare la vicenda e i personaggi, per conferire alla commedia quel tono spietato ma arioso del Pirandello migliore e che tutto si ritrova nelle parole di Cotrone de I giganti della montagna: “Liberata da tutti questi impacci, ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in favolose lontananze”.
Pierluigi Pietricola
Al Brancaccino di Roma (ex teatro Morgana) va in scena Stand Up, Guzz, di e con Paolo Guzzanti. Volendo riproporre il tipico genere teatrale americano e britannico dello stand-up, si assiste ad un monologo sconclusionato che ruota attorno agli USA con le loro bizzarrie culturali, e alle misere ipocrisie italiane. Il tutto, però, si risolve in un delirio che non convince.
Per nulla efficace Guzzanti nella sua prova d’attore: la voce è affaticata, a tratti malamente espressiva; la mimica del tutto assente. Ciò che si può capire non essendo in presenza d’un attore di professione.
Lo stand-up potrebbe rassomigliarsi, nei casi migliori, ad una specie di conferenza dal tono brillante e arioso, in grado di coinvolgere il pubblico e chiamarlo in causa sui temi affrontati. Questo spettacolo, invece, pecca di brio. Tutto è scarno, a cominciare dalla scenografia che non c’è.
Il pubblico – non numeroso – applaude senza esserne convinto e pare non seguire i grammelot di pensieri di Guzzanti. A sprazzi vi è una lieve trovata comica – come, ad esempio, quella dell’aereo stealth, dipinto come buffo e depresso salvo dimostrarsi capace, d’improvviso, delle peggiori violenze – che diviene tormentone e strappa, qui e lì, stentate risa.
C’è da chiedersi il senso di simili operazioni teatrali. In periodi scialbi come quelli attuali, per le scene italiane (e non solo per esse), sui palcoscenici dovrebbero trovar spazio idee in grado di far comprendere il momento in cui viviamo, le sue contraddizioni, le sue ombre assieme alle possibilità di ripresa (quando ve ne sono). Stand Up, Guzz non assolve a un simile compito.
Tutte queste mancanze vengon compensate dalla bonaria simpatia di Paolo Guzzanti – dote di cui, va detto, non è sprovvisto. Ma non basta a far decollare uno spettacolo che vacilla in ogni sua parte e finisce per rovinare a terra senza speranza di rialzarsi incolume.
Pierluigi Pietricola